El Comercio De La República - Milionari senza Laurea?

Lima -

Milionari senza Laurea?




In tempi di video motivazionali e storie virali, il messaggio è chiaro: “Non serve la laurea per diventare ricchi; guarda questi esempi”. È una narrazione seducente, ma rischia di farci cadere nel bias del sopravvissuto: vedere solo chi è arrivato al traguardo e ignorare la moltitudine che si è fermata prima. Quando applichiamo questo filtro alla ricchezza — in particolare al mito dei “milionari senza laurea” — travisiamo i dati, prendiamo decisioni sbagliate e diamo consigli pericolosamente parziali a studenti, famiglie e imprenditori.

Che cos’è il bias del sopravvissuto (e perché ci inganna)
Il bias del sopravvissuto è un errore logico-statistico: concentriamo l’attenzione su chi è “sopravvissuto” a un percorso (aziende di successo, personaggi celebri, investitori vincenti), trascurando chi ha fallito o si è fermato. Il risultato è un’immagine distorta della realtà, dove le probabilità reali di successo sembrano più alte di quanto siano. È il motivo per cui i racconti di poche star diventano regola implicita, mentre il silenzio dei molti che non ce l’hanno fatta non entra mai nel quadro.

Ricchezza e istruzione: cosa dicono i dati, non gli aneddoti - Il mito dei dropout miliardari nasce da una manciata di storie eccezionali. Ma le analisi su campioni ampi mostrano altro:
La larga maggioranza dei miliardari e dei milionari ha un titolo universitario. Studi su elenchi dei più ricchi e indagini su migliaia di milionari indicano quote ampie di laureati, con una fetta non trascurabile persino con titoli post-laurea. In altre parole: i casi famosi senza laurea sono eccezioni, non la regola.

Nel complesso del mercato del lavoro, l’istruzione paga: a livelli di studio più alti corrispondono, in media, salari maggiori e tassi di disoccupazione più bassi. Questo non garantisce né ricchezza né successo, ma sposta le probabilità nella direzione giusta. Tradotto: non serve una laurea per ogni carriera possibile, ma i numeri smentiscono l’idea che “laurearsi non conti”.

Tre spinte lo alimentano:
Selezione delle storie: i media e i social amplificano i percorsi fuori norma; la normalità (anni di studio e lavoro) è poco “condivisibile”.
Conferma delle convinzioni: se vogliamo credere che “basta la grinta”, cerchiamo e ricordiamo solo esempi che lo confermano.
Invisibilità dei falliti: chi non arriva non racconta; chi arriva racconta molto. La platea vede solo i vincenti.
Il risultato è una bussola che punta sempre verso “modelli” scintillanti, anche quando sono irripetibili.

Impresa e fallimenti: il lato nascosto della curva
Un’altra zona d’ombra del bias del sopravvissuto riguarda l’imprenditoria. Le statistiche internazionali mostrano che molte nuove imprese non superano i primi anni, e la maggioranza delle startup non arriva alla scala promessa dai pitch. Questo non significa che “non convenga provarci”, ma che i modelli costruiti solo su unicorni e storie heroiche sovrastimano la probabilità di riuscita e sottovalutano capitale, competenze e tempi necessari.

Decisioni concrete: come evitare gli errori più comuni
Separare eccezioni e tendenze: ispirarsi alle storie fuori norma è lecito; pianificare su quella base è rischioso.
Guardare alle distribuzioni, non ai casi singoli: stipendi mediani, tassi di occupazione, probabilità di sopravvivenza delle imprese sono bussola migliore dei racconti virali.
Valutare i percorsi alternativi con dati alla mano: formazione tecnica, apprendistati e certificazioni possono offrire ritorni solidi; la scelta dovrebbe dipendere da settore, domanda e competenze richieste, non da slogan.
Misurare i costi opportunità: rinunciare a un titolo può far entrare prima nel mercato, ma può ridurre margini di mobilità e resilienza nelle crisi.
Dare visibilità ai “non sopravvissuti”: quando si analizza un settore (o si fa orientamento), includere sistematicamente i progetti falliti e i motivi del fallimento.

Giovani e famiglie: cosa chiedersi prima di “saltare” l’università
Qual è il profilo occupazionale del settore? Titoli richiesti, retribuzioni tipiche, carenze di competenze.
Qual è la via più efficiente al primo impiego qualificato? Laurea breve? ITS/IFTS? Apprendistato? Certificazioni?
Che rete ho? Molti esempi “senza laurea” erano sostenuti da reti, capitale iniziale o contesti unici, difficili da replicare.
Come mitigo il rischio? Stage, lavori part-time qualificati, corsi mirati e portafogli di progetti possono ridurre l’incertezza sia scegliendo l’università sia optando per percorsi alternativi.

Il punto di equilibrio
La laurea non è un feticcio; è uno strumento che, in media, aumenta opportunità e resilienza. Esistono percorsi vincenti senza università, ma sono meno probabili di quanto suggerisca l’eco mediatica. Il compito di scuole, famiglie, imprese e media è ristabilire la proporzione: smitizzare i pochi “sopravvissuti”, restituire visibilità alla base larga della distribuzione e aiutare ciascuno a scegliere sulla base di dati, non di slogan.

 



In primo piano


Ivana: Dal buio del Fentanyl

«Il fentanyl era la risposta al mio disagio». È la frase con cui Ivana, oggi 28enne, sintetizza un passato di sofferenza e di dipendenza da oppioidi. La sua testimonianza, raccontata nel terzo episodio (EP.3) di una serie di interviste divulgative, è la cronaca di una caduta e di una risalita che parlano a molte famiglie italiane.Figlia di due medici, cresciuta tra Arezzo e le radici ugandesi trasmesse dalla nonna, Ivana descrive un’infanzia serena incrinata all’ingresso nell’adolescenza: isolamento, episodi di razzismo, la sensazione di non appartenere. Prima l’alcol, poi – durante il liceo – il salto ai farmaci presenti in casa: morfina e soprattutto fentanyl, un oppioide sintetico potentissimo. Non cercava “lo sballo”, dice, ma l’anestesia emotiva: spegnere dolore, ansia, inadeguatezza. La tolleranza è cresciuta, così come le crisi d’astinenza, fino a chiuderla per mesi in un appartamento, prigioniera di un consumo incessante.Nel tentativo di ricucire le ferite identitarie, i familiari la mandano per un periodo in Uganda. Lì, una rapina finita in tragedia – lo zio ucciso e lei stessa ferita – segna un’ulteriore frattura. Al ritorno in Italia, la dipendenza riprende il sopravvento. La svolta arriva grazie alla nonna: a 80 anni lascia tutto, la accompagna in una clinica di disintossicazione a Verona e poi in comunità. È in quel contesto che Ivana impara a raccontarsi, ad accettare la vulnerabilità e a costruire nuove abitudini.In comunità scopre la corsa. Non come gara, ma come ascolto di sé. Chilometro dopo chilometro, arriva a concludere la sua prima maratona a Verona. Nel frattempo riemerge un desiderio antico, cresciuto in una casa di camici e stetoscopi: studiare Medicina. Oggi Ivana è iscritta al secondo anno e vive a Firenze. Il suo messaggio ai coetanei è netto: chiedere aiuto funziona; la rete di cura e di prossimità – famiglia, comunità, professionisti – può salvare la vita.Il caso personale non va letto fuori contesto. Il fentanyl è un analgesico oppioide di potenza eccezionale (decine di volte superiore alla morfina) con effetti terapeutici imprescindibili in ambito clinico, ma capace – se usato fuori controllo medico – di indurre rapidamente dipendenza e di provocare overdose per depressione respiratoria. L’antidoto di riferimento, il naloxone, può invertire l’overdose se somministrato tempestivamente, ma l’elevata potenza degli analoghi impone formazione capillare e risposta rapida.L’Italia, pur non registrando i numeri degli Stati Uniti, ha alzato il livello di guardia. Nel 2024 è stato varato un Piano nazionale di prevenzione contro l’uso improprio di fentanyl e altri oppioidi sintetici, con azioni coordinate: monitoraggio dei mercati, allerta rapida, tracciamento delle prescrizioni anomale, formazione degli operatori sanitari e della rete di emergenza, sensibilizzazione dei servizi territoriali. Nello stesso anno, un campione di eroina venduta a Perugia è risultato contenere una quota di fentanyl: un episodio che ha fatto scattare procedure di allerta e rafforzato i controlli.Sul fronte europeo, nell’agosto 2025 sono entrate in vigore nuove misure sui precursori chimici utilizzati nelle sintesi illecite, con l’inclusione di due intermedi chiave tra le sostanze più rigidamente controllate. È un tassello cruciale: limitare a monte i mattoni chimici rende più difficile produrre fentanyl e analoghi destinati al mercato illegale.La storia di Ivana non è un’eccezione miracolistica, ma l’evidenza che prevenzione, cura e comunità funzionano. Tre i punti che emergono con forza:1) Riconoscere presto il disagio – ansia, isolamento e discriminazione sono fattori di rischio reali; ignorarli apre la strada all’automedicazione pericolosa.2) Abbattere lo stigma – chi chiede aiuto non è “debole”: è competente sul proprio benessere. Lo stigma ritarda l’accesso alle cure.3) Integrare le risposte – medicina delle dipendenze, psicoterapia, interventi sul contesto di vita e strumenti di riduzione del danno (incluso l’accesso al naloxone) devono coesistere.Nel suo EP.3, Ivana consegna una bussola a studenti, famiglie e decisori: dare parole al dolore, chiedere aiuto e pretenderlo, sostenere chi cura. È così che si spezza l’equazione tossica “disagio = oppioidi” e si restituisce alle persone la possibilità di futuro.

Che cosa sente il Corpo in RM?

Cosa succede al nostro corpo durante una risonanza magnetica? All’esterno la risonanza magnetica (RM) sembra silenziosa; all’interno, il nostro corpo entra in un ambiente fisico molto controllato in cui agiscono tre componenti: un campo magnetico statico potente, campi magnetici che variano rapidamente (gradienti) e onde radio (RF). È la combinazione di questi elementi a generare le immagini — e anche le sensazioni più comuni che i pazienti riferiscono.L’allineamento dei protoni: il “segreto” dell’immagineLe molecole d’acqua e di grasso del corpo contengono atomi di idrogeno. Il campo magnetico della RM orienta i loro protoni; brevi impulsi di radiofrequenza li spostano e, quando cessano, l’energia rilasciata viene “raccolta” dalle antenne del sistema e trasformata in immagini. Questo processo è impercettibile: non si sente l’azione del magnete né delle onde radio.Che cosa si percepisce davvero-  Rumore: durante l’esame si avvertono colpi ritmati, fischi o “battiti” rapidi. Non sono segno di guasto, ma l’effetto meccanico dei gradienti che vibrano. Le strutture forniscono sempre protezioni acustiche (tappi o cuffie); con questi dispositivi l’esposizione sonora rientra nei limiti di sicurezza previsti.-  Formicolii o piccoli “sussulti” muscolari: sono dovuti alla rapida variazione dei gradienti, che può stimolare in modo transitorio i nervi periferici. Di solito sono lievi e passeggeri; è sufficiente avvisare il tecnico se disturbano.-  Lieve sensazione di calore: l’energia RF può generare un modesto riscaldamento cutaneo o corporeo, tenuto sotto controllo dal sistema mediante limiti di potenza (SAR) e pause tra le sequenze.-  Capogiri o nausea, specialmente quando ci si muove dentro/fuori dal gantry: nei campi più elevati può comparire un transitorio senso di vertigine perché il magnete interagisce con l’apparato vestibolare dell’orecchio interno. In rari casi si osservano fosfeni (piccoli lampi di luce periferici), innocui e di breve durata.Durata e immobilitàIn base alla regione anatomica e al protocollo, un esame tipico dura circa 15–60 minuti. Restare immobili — e seguire eventuali istruzioni di respiro — evita immagini mosse e ripetizioni.Prima di entrare in salaÈ essenziale rimuovere tutti gli oggetti metallici o elettronici (gioielli, orologi, smartphone, carte magnetiche), indossare abiti senza inserti o filati metallici e, se è interessata la testa, evitare cosmetici con pigmenti metallici (mascara/eyeliner “glitter”). Mascherine, cerotti o sensori con parti metalliche vanno sostituiti con dispositivi compatibili.Impianti e dispositiviMolti impianti moderni (pacemaker, defibrillatori, neurostimolatori, pompe, protesi, stent) sono etichettati come MR Safe o MR Conditional. Oggi la RM è spesso possibile anche nei portatori di dispositivi cardiaci, purché in centri esperti e con protocolli dedicati (programmazione del dispositivo, monitoraggio e parametri di scansione specifici). È fondamentale dichiarare sempre qualsiasi impianto, vecchio o nuovo, e presentare il tesserino del dispositivo.Tatuaggi, trucco permanente e accessoriIn rari casi i tatuaggi o il trucco permanente possono dare sensazioni di calore, pizzicore o lieve bruciore nella zona tatuata, soprattutto se l’inchiostro contiene particelle conduttive. Si tratta quasi sempre di fenomeni transitori; informare preventivamente l’equipe aiuta a prevenire o gestire il disturbo.Contrasto al gadolinio: quando serve e quali effetti aspettarsiIl mezzo di contrasto a base di gadolinio si somministra solo se migliora la qualità diagnostica. Nella maggior parte dei pazienti gli effetti indesiderati sono rari e di solito lievi (per esempio nausea passeggera o alterazione del gusto). Da anni è noto che piccolissime quantità di gadolinio possono persistere nell’organismo: le autorità hanno perciò limitato l’uso di alcuni agenti “lineari”, privilegiando formulazioni macrocicliche, più stabili. Per le persone con grave insufficienza renale si valutano con attenzione indicazione e tipo di agente. In gravidanza l’impiego del contrasto si riserva solo ai casi in cui il beneficio superi chiaramente i rischi; durante l’allattamento, nella maggior parte delle situazioni non è necessario interrompere le poppate dopo la somministrazione.Gravidanza e bambiniLa RM senza contrasto è considerata l’esame di scelta quando occorre evitare radiazioni ionizzanti in gravidanza. Nei bambini, per alcune indagini, può servire sedazione leggera (per restare immobili), con monitoraggio anestesiologico e protocolli dedicati.Claustrofobia: come si affrontaTra l’1% e il 15% dei pazienti riferisce claustrofobia o ansia. Oltre a informazione e tecniche di respirazione, aiutano i sistemi wide‑bore (apertura fino a 70 cm), ambienti con musica/illuminazione dedicata, visori a specchio per “allargare” lo spazio percepito o, se necessario, una blanda sedazione. In selezionati casi si può ricorrere a piattaforme “open”, accettando i possibili compromessi di qualità e tempo.Rischi rari ma reali e perché lo screening è decisivoLe complicanze gravi sono rare. Le più frequenti, se le procedure non vengono seguite, sono ustioni cutanee (per contatto prolungato con la parete del tunnel, cavi/elettrodi che formano “anelli” o dispositivi non compatibili) e incidenti da effetto proiettile quando oggetti ferromagnetici entrano per errore in sala. Per questo lo screening è minuzioso e molte strutture adottano anche rilevatori ferromagnetici in ingresso. Collaborare con i professionisti — dichiarando impianti, ferite metalliche, tatuaggi e stati fisiologici — è la misura di sicurezza più importante.Consigli pratici, in breve• Portare documentazione di impianti o protesi;• Indossare abiti senza parti metalliche; niente cosmetici metallici se si studia la testa;• Segnalare tatuaggi e trucco permanente;• Avvisare se si è in gravidanza o si allatta;• Comunicare eventuale claustrofobia: esistono soluzioni dedicate;• Restare immobili, seguire le istruzioni di respiro e usare sempre la protezione auricolare.

Hansel e Gretel: La bufala

Negli ultimi giorni è tornata a circolare l’idea che un “archeologo tedesco” avrebbe dimostrato che Hansel e Gretel fossero in realtà due assassini vissuti nel Seicento. È una narrazione seducente, ma non corrisponde ai fatti storicamente verificabili. Quella tesi nasce nel 1963 da un’operazione editoriale che imitava in modo perfetto i codici della saggistica scientifica: un libro costruito come un’inchiesta con fotografie, presunti reperti, perizie antropologiche e documenti d’archivio. L’“archeologo” citato in quel volume, però, non è mai esistito, e la ricostruzione è stata smontata pubblicamente già l’anno successivo.Come nasce la storia dei “due assassini”La narrazione oggi rilanciata online racconta di un insegnante appassionato di scavi che, nei boschi dello Spessart, avrebbe individuato i resti di una casupola con quattro forni; all’interno, le ossa parzialmente bruciate di una donna sui trentacinque anni e, in una cassetta di ferro, utensili da forno e un’antica ricetta di panpepato. Incrociando indizi linguistici e fonti locali, il sedicente ricercatore avrebbe identificato la vittima con una celebre pasticciera del XVII secolo, Katharina Schraderin; i colpevoli, secondo questa trama, sarebbero stati un fornaio di Norimberga, Hans Metzler, e la sorella Grete, mossi dal desiderio di impossessarsi della ricetta dei lebkuchen. Il delitto sarebbe avvenuto nel 1647, in piena Guerra dei Trent’anni: una versione “realistica” che ribalta la fiaba trasformando la “strega” in una professionista uccisa e i due protagonisti in un duo di omicidi.Che cosa è stato accertatoQuella ricostruzione non è una scoperta archeologica, ma un esempio di “non‑fiction fittizia” messo in scena da un autore tedesco con fine ironia e grande perizia narrativa. Il presunto “professor Georg Ossegg” non è mai esistito; le immagini di scavo – divenute iconiche – ritraevano l’autore stesso travestito; parte dei “reperti” era di provenienza domestica; la ricetta attribuita alla vittima coincideva con un testo di largo consumo dell’epoca. A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione, l’operazione fu svelata come una parodia della moda delle scoperte archeologiche “a effetto” e come un esperimento sui meccanismi con cui il pubblico tende ad attribuire autorità a un racconto che indossa gli abiti della ricerca.Perché l’idea continua a riemergereL’impianto funziona perché è calibrato sui nostri automatismi cognitivi: fotografie in bianco e nero di “scavi” e “documenti”, un lessico pseudo‑accademico, cronologie e toponimi precisi, collegamenti ingegnosi tra fiaba, linguistica e geografia. A questo si è aggiunta, nel tempo, la circolazione secondaria: nuove edizioni del volume, traduzioni (in Italia il titolo è apparso già nei primi anni Ottanta), un adattamento cinematografico negli anni Ottanta e riprese in programmi e podcast di divulgazione che la presentano esplicitamente come una burla esemplare. Dall’altro lato, piattaforme e pagine web periodicamente rilanciano la tesi come “vera storia dietro la fiaba”, spesso senza ricordare – o senza sapere – che si tratta di un falso letterario dichiarato tale dall’autore e documentato da verifiche indipendenti fin dal 1964.Cosa resta, davvero, della fiabaLe fiabe raccolte nell’Ottocento non sono cronache giudiziarie: sedimentano paure, memorie di carestie e processi alle streghe, traumi sociali e morali di un’Europa pre‑industriale. È legittimo studiarne il rapporto con la storia sociale; non è legittimo, però, attribuire loro un caso di omicidio “con nomi e cognomi” senza prove. Per Hansel e Gretel, al di fuori dell’operazione satirica del 1963, non esiste alcuna evidenza archivistica o materiale che dimostri l’esistenza di due fratelli assassini responsabili dell’uccisione di una pasticciera nel 1647.Il puntoNon c’è un “cold case” risolto da un archeologo tedesco: c’è la storia, ben documentata, di una burla editoriale che ha insegnato quanto un racconto confezionato con gli strumenti della scienza possa sembrare vero anche quando non lo è. Ed è per questo che, ancora oggi, la tesi riaffiora ciclicamente online: perché è verosimile, perché è affascinante e perché parla alla nostra voglia di trovare nel mito un fatto nudo e crudo. Ma i fatti, quelli controllabili, dicono altro.