El Comercio De La República - Dazi USA-Cina: lezioni storiche

Lima -

Dazi USA-Cina: lezioni storiche




La nuova ondata di dazi commerciali tra Stati Uniti e Cina, iniziata nel 2025 sotto la presidenza di Donald Trump, ha riacceso il dibattito sulle guerre commerciali e i loro effetti. Con tariffe che raggiungono il 145% sulle importazioni cinesi e contromisure di Pechino al 125% su prodotti americani, l’economia globale trema. Ma cosa ci insegna la storia sulle guerre dei dazi? Questo articolo analizza le esperienze passate per comprendere le possibili conseguenze del conflitto attuale.

Le guerre commerciali non sono una novità. Uno degli esempi più noti è la tariffa Smoot-Hawley del 1930, quando gli Stati Uniti imposero dazi fino al 60% sulle importazioni per proteggere l’industria interna durante la Grande Depressione. Il risultato fu disastroso: il commercio globale crollò del 66% tra il 1929 e il 1934, aggravando la recessione. I partner commerciali, come Canada ed Europa, risposero con dazi retaliatori, riducendo le esportazioni americane del 61%. La lezione fu chiara: i dazi protezionistici, se non calibrati, possono amplificare le crisi economiche anziché risolverle.

Un caso più recente è la guerra commerciale USA-Cina del 2018-2019, durante il primo mandato di Trump. Gli Stati Uniti imposero tariffe fino al 25% su 360 miliardi di dollari di beni cinesi, mentre Pechino rispose con dazi su 120 miliardi di dollari di prodotti americani, colpendo soprattutto l’agricoltura. Gli effetti furono misti: negli Stati Uniti, i consumatori pagarono 40 miliardi di dollari in più all’anno per beni importati, e gli agricoltori persero 12 miliardi di esportazioni, costringendo il governo a stanziare sussidi per 28 miliardi. Tuttavia, alcune industrie, come quella dell’acciaio, videro una crescita temporanea del 10% nell’occupazione. In Cina, l’export verso gli USA diminuì del 13%, ma Pechino accelerò la diversificazione commerciale, rafforzando i legami con l’Asia e l’Africa.

La storia evidenzia tre lezioni principali. Primo, i dazi aumentano i costi per i consumatori. Nel 2018, i prezzi di beni come elettronica ed elettrodomestici negli Stati Uniti crebbero del 3-5%, un fenomeno che si ripete oggi con un aumento del 4,2% nei prezzi dei prodotti cinesi nel 2025. Secondo, le catene di approvvigionamento globali soffrono: durante la guerra del 2018, il 30% delle aziende multinazionali ha dovuto riorganizzare le proprie filiere, un processo costoso che si sta ripetendo, con ritardi nelle consegne di componenti elettronici stimati al 20%. Terzo, le ritorsioni sono inevitabili. Nel passato, come oggi, la Cina ha risposto con dazi mirati e restrizioni su risorse strategiche, come i minerali rari, fondamentali per il 90% della produzione di batterie e semiconduttori.

Un altro insegnamento storico è che le guerre commerciali raramente raggiungono gli obiettivi dichiarati. Negli anni ’80, gli Stati Uniti imposero dazi del 100% sulle motociclette giapponesi per salvare Harley-Davidson. Sebbene l’azienda sopravvisse, il Giappone spostò la produzione negli USA, aggirando i dazi, e i consumatori pagarono prezzi più alti. Analogamente, i dazi attuali mirano a rilocalizzare l’industria americana, ma solo il 2% dei posti di lavoro manifatturieri è tornato negli Stati Uniti dal gennaio 2025, mentre le piccole imprese hanno tagliato 50.000 posti nel commercio al dettaglio.

Le guerre commerciali hanno anche un impatto geopolitico. Durante la disputa del 2018, la Cina rafforzò l’iniziativa Belt and Road, investendo 200 miliardi di dollari in infrastrutture globali per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. Oggi, Pechino sta consolidando alleanze con Russia e Iran, mentre limita l’accesso a materiali critici, spingendo paesi come Australia e Cile a colmare il vuoto. Questo suggerisce che i dazi, anziché indebolire l’avversario, possono accelerare la riconfigurazione delle alleanze globali.

Tuttavia, la storia offre anche esempi di successi limitati. Negli anni ’90, gli Stati Uniti usarono la minaccia di dazi per aprire i mercati giapponesi e sudcoreani, ottenendo accordi commerciali vantaggiosi senza escalation. Questo indica che i dazi possono funzionare come leva negoziale, ma solo se accompagnati da diplomazia. Nel 2025, invece, l’assenza di dialogo diretto tra Trump e Xi Jinping rende improbabile una risoluzione rapida, prolungando l’incertezza.

Le conseguenze attuali riflettono le esperienze passate. I mercati globali hanno perso 2,5 trilioni di dollari in valore da aprile 2025, riecheggiando le turbolenze del 2018. L’inflazione globale, prevista al 3-4%, minaccia il potere d’acquisto, mentre il PIL mondiale potrebbe ridursi dell’1-2% entro il 2027 se il conflitto persiste. La storia ci avverte che le guerre commerciali non hanno vincitori assoluti: proteggono alcune industrie, ma a scapito di consumatori, imprese e stabilità globale.

Per il futuro, la chiave è bilanciare protezione e cooperazione. La storia insegna che i dazi funzionano meglio come strumento temporaneo, non come strategia permanente. Senza negoziati credibili, il conflitto USA-Cina rischia di ripetere gli errori del passato, con costi che ricadranno su tutti.



In primo piano


Italia senza gas russo

L’Italia ha voltato definitivamente pagina: nella mappa dei flussi di gas aggiornata al primo semestre 2025, il Paese non conta più sul gas russo per coprire il proprio fabbisogno interno. La svolta, avviata dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, oggi è certificata dai dati di trasporto e rigassificazione: la quota di metano proveniente dal punto di ingresso di Tarvisio è scesa a meno del 2 per cento dei volumi immessi in rete, un flusso utilizzato quasi esclusivamente per il transito verso l’Austria.Il nuovo equilibrio energetico poggia su tre pilastri. Il primo è l’Algeria, che attraverso il gasdotto Transmed (ingresso di Mazara del Vallo) fornisce circa un terzo del gas consumato nel Paese. Il secondo è l’Azerbaigian: la Trans-Adriatic Pipeline che approda a Melendugno in Puglia garantisce un altro 15 per cento, rafforzando l’asse con il Caucaso. Il terzo pilastro è rappresentato dalle importazioni dal Nord Europa via Passo Gries, che coprono poco meno del 13 per cento e assicurano flessibilità in caso di picchi di domanda.A questi flussi via tubo si affianca l’esplosione del GNL. Con l’entrata in servizio della FSRU di Piombino nel 2023 e della nuova unità galleggiante a Ravenna nel maggio 2025, la capacità complessiva di rigassificazione supera i 30 miliardi di metri cubi l’anno. Nel primo semestre 2025 il GNL vale già il 31 per cento dell’offerta nazionale: lo alimentano soprattutto Qatar (circa 45 per cento del totale GNL) e Stati Uniti (35 per cento), seguiti da carichi spot provenienti da Africa occidentale e Norvegia.Diminuisce invece il contributo della Libia – sceso al di sotto del 2 per cento – complice l’instabilità politica di Tripoli e gli interventi di manutenzione sul Greenstream. La produzione nazionale, pur modesta, torna a crescere (5 per cento del totale) grazie a rilanci mirati in Adriatico e alla semplificazione delle autorizzazioni.La nuova configurazione delle infrastrutture ha trasformato l’Italia in un nodo di riequilibrio per l’Europa centrale: nei primi sei mesi dell’anno le esportazioni verso l’Austria sono quadruplicate, confermando la strategicità dell’asse Tarvisio-Arnoldstein. Parallelamente, gli stoccaggi sono stati riempiti oltre il 70 per cento già a giugno, superando la media UE, e garantendo sicurezza di approvvigionamento in vista dell’inverno.Sul piano politico-industriale, Roma consolida il “Piano Mattei” con l’Africa, punta all’idrogeno verde via TAP e preme sulla realizzazione del nuovo gasdotto orientale EastMed. Ma, soprattutto, la dipendenza dalla Russia è ormai un capitolo chiuso: un cambio di paradigma che rafforza la posizione italiana nei negoziati sul clima e accelera la transizione energetica senza rinunciare alla sicurezza degli approvvigionamenti.

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