El Comercio De La República - Viviamo il nostro apogeo

Lima -

Viviamo il nostro apogeo




In un mondo che sembra sempre più diviso tra chi celebra il progresso e chi lo nega, emerge una verità inconfutabile: non siamo mai stati meglio. Eppure, questa è la storia che molti rifiutano di accettare, preferendo aggrapparsi a narrazioni di declino e nostalgia. Ma i dati parlano chiaro: l'umanità ha raggiunto vette mai viste prima in termini di salute, tecnologia, economia e diritti sociali. Tuttavia, la resistenza a questa realtà è forte, alimentata da una miscela di disinformazione, paura e, talvolta, da un senso di perdita per un passato idealizzato.

Salute: un’epoca di conquiste
Grazie ai progressi della medicina, l’aspettativa di vita globale è aumentata in modo significativo. Nel 1950, la media era di circa 48 anni; oggi, supera i 73 anni. Le malattie che un tempo decimavano intere popolazioni, come il vaiolo, sono state eradicate, mentre altre, come la poliomielite, sono state quasi completamente debellate. La mortalità infantile è ai minimi storici, e la ricerca continua a fare passi da gigante contro il cancro, le malattie cardiache e, più recentemente, contro le pandemie globali. Anche la salute mentale, un tempo tabù, è finalmente al centro dell’attenzione, con una crescente consapevolezza e accesso a trattamenti innovativi.

Tecnologia: il mondo a portata di mano
Viviamo in un’era di connessione e innovazione senza precedenti. Internet ha democratizzato l’accesso alla conoscenza, permettendo a miliardi di persone di apprendere, lavorare e comunicare in modi che solo pochi decenni fa erano impensabili. Le energie rinnovabili stanno riducendo la dipendenza dai combustibili fossili, mentre l’intelligenza artificiale e la robotica promettono di rivoluzionare settori come la medicina, l’agricoltura e l’industria. La mobilità è stata trasformata: auto elettriche, treni ad alta velocità e voli sempre più efficienti hanno reso il mondo più piccolo e accessibile.

Economia: meno povertà, più opportunità
Il quadro economico è altrettanto positivo. La povertà estrema è in calo: nel 1990, il 36% della popolazione mondiale viveva con meno di 1,90 dollari al giorno; oggi, questa cifra è scesa sotto il 10%. La classe media globale è in espansione, e l’accesso all’istruzione è ai massimi storici, con tassi di alfabetizzazione che superano il 90% in molte regioni. Le donne, in particolare, hanno visto un aumento significativo della loro partecipazione al mercato del lavoro e all’istruzione superiore, contribuendo a una crescita economica più inclusiva.

Diritti sociali: un cammino verso l’uguaglianza
I diritti umani e sociali hanno fatto progressi notevoli. La lotta per l’uguaglianza di genere, i diritti LGBTQ+ e la giustizia razziale ha portato a cambiamenti legislativi e culturali in tutto il mondo. Le democrazie, pur con le loro imperfezioni, sono più diffuse che mai, e la libertà di espressione è protetta in modi che i nostri antenati potevano solo sognare.

Perché rifiutiamo questa storia?
Eppure, nonostante tutto questo, c’è chi rifiuta di accettare questa realtà. Alcuni lo fanno per nostalgia, idealizzando un passato che, in verità, era segnato da guerre, malattie e disuguaglianze ben più gravi. Altri sono influenzati da una narrazione mediatica che, per sua natura, tende a enfatizzare il negativo, creando una percezione distorta della realtà. Infine, ci sono coloro che, per motivi politici o ideologici, trovano conveniente dipingere un quadro di declino per alimentare paure e divisioni.

Un’epoca d’oro da riconoscere
La verità è che viviamo in un’epoca d’oro. Non significa che non ci siano sfide – il cambiamento climatico, le disuguaglianze persistenti e le tensioni geopolitiche sono problemi reali che richiedono attenzione e azione. Tuttavia, negare i progressi fatti è non solo inaccurato, ma anche pericoloso. Ci impedisce di apprezzare ciò che abbiamo e di costruire su queste fondamenta per affrontare le sfide future.

In conclusione, la storia che rifiutiamo di accettare è proprio quella che dovremmo celebrare: non siamo mai stati meglio. È tempo di riconoscere questa verità e di usarla come trampolino per un futuro ancora più luminoso.



In primo piano


Milionari senza Laurea?

In tempi di video motivazionali e storie virali, il messaggio è chiaro: “Non serve la laurea per diventare ricchi; guarda questi esempi”. È una narrazione seducente, ma rischia di farci cadere nel bias del sopravvissuto: vedere solo chi è arrivato al traguardo e ignorare la moltitudine che si è fermata prima. Quando applichiamo questo filtro alla ricchezza — in particolare al mito dei “milionari senza laurea” — travisiamo i dati, prendiamo decisioni sbagliate e diamo consigli pericolosamente parziali a studenti, famiglie e imprenditori.Che cos’è il bias del sopravvissuto (e perché ci inganna)Il bias del sopravvissuto è un errore logico-statistico: concentriamo l’attenzione su chi è “sopravvissuto” a un percorso (aziende di successo, personaggi celebri, investitori vincenti), trascurando chi ha fallito o si è fermato. Il risultato è un’immagine distorta della realtà, dove le probabilità reali di successo sembrano più alte di quanto siano. È il motivo per cui i racconti di poche star diventano regola implicita, mentre il silenzio dei molti che non ce l’hanno fatta non entra mai nel quadro.Ricchezza e istruzione: cosa dicono i dati, non gli aneddoti - Il mito dei dropout miliardari nasce da una manciata di storie eccezionali. Ma le analisi su campioni ampi mostrano altro:La larga maggioranza dei miliardari e dei milionari ha un titolo universitario. Studi su elenchi dei più ricchi e indagini su migliaia di milionari indicano quote ampie di laureati, con una fetta non trascurabile persino con titoli post-laurea. In altre parole: i casi famosi senza laurea sono eccezioni, non la regola.Nel complesso del mercato del lavoro, l’istruzione paga: a livelli di studio più alti corrispondono, in media, salari maggiori e tassi di disoccupazione più bassi. Questo non garantisce né ricchezza né successo, ma sposta le probabilità nella direzione giusta. Tradotto: non serve una laurea per ogni carriera possibile, ma i numeri smentiscono l’idea che “laurearsi non conti”.Tre spinte lo alimentano:-  Selezione delle storie: i media e i social amplificano i percorsi fuori norma; la normalità (anni di studio e lavoro) è poco “condivisibile”.-  Conferma delle convinzioni: se vogliamo credere che “basta la grinta”, cerchiamo e ricordiamo solo esempi che lo confermano.-  Invisibilità dei falliti: chi non arriva non racconta; chi arriva racconta molto. La platea vede solo i vincenti.-  Il risultato è una bussola che punta sempre verso “modelli” scintillanti, anche quando sono irripetibili.Impresa e fallimenti: il lato nascosto della curvaUn’altra zona d’ombra del bias del sopravvissuto riguarda l’imprenditoria. Le statistiche internazionali mostrano che molte nuove imprese non superano i primi anni, e la maggioranza delle startup non arriva alla scala promessa dai pitch. Questo non significa che “non convenga provarci”, ma che i modelli costruiti solo su unicorni e storie heroiche sovrastimano la probabilità di riuscita e sottovalutano capitale, competenze e tempi necessari.Decisioni concrete: come evitare gli errori più comuni-  Separare eccezioni e tendenze: ispirarsi alle storie fuori norma è lecito; pianificare su quella base è rischioso.-  Guardare alle distribuzioni, non ai casi singoli: stipendi mediani, tassi di occupazione, probabilità di sopravvivenza delle imprese sono bussola migliore dei racconti virali.-  Valutare i percorsi alternativi con dati alla mano: formazione tecnica, apprendistati e certificazioni possono offrire ritorni solidi; la scelta dovrebbe dipendere da settore, domanda e competenze richieste, non da slogan.-  Misurare i costi opportunità: rinunciare a un titolo può far entrare prima nel mercato, ma può ridurre margini di mobilità e resilienza nelle crisi.-  Dare visibilità ai “non sopravvissuti”: quando si analizza un settore (o si fa orientamento), includere sistematicamente i progetti falliti e i motivi del fallimento.Giovani e famiglie: cosa chiedersi prima di “saltare” l’università-  Qual è il profilo occupazionale del settore? Titoli richiesti, retribuzioni tipiche, carenze di competenze.-  Qual è la via più efficiente al primo impiego qualificato? Laurea breve? ITS/IFTS? Apprendistato? Certificazioni?-  Che rete ho? Molti esempi “senza laurea” erano sostenuti da reti, capitale iniziale o contesti unici, difficili da replicare.-  Come mitigo il rischio? Stage, lavori part-time qualificati, corsi mirati e portafogli di progetti possono ridurre l’incertezza sia scegliendo l’università sia optando per percorsi alternativi.Il punto di equilibrioLa laurea non è un feticcio; è uno strumento che, in media, aumenta opportunità e resilienza. Esistono percorsi vincenti senza università, ma sono meno probabili di quanto suggerisca l’eco mediatica. Il compito di scuole, famiglie, imprese e media è ristabilire la proporzione: smitizzare i pochi “sopravvissuti”, restituire visibilità alla base larga della distribuzione e aiutare ciascuno a scegliere sulla base di dati, non di slogan.  

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