El Comercio De La República - AI e Coscienza: Realtà o Mito?

Lima -

AI e Coscienza: Realtà o Mito?




Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (IA) ha fatto passi da gigante, rivoluzionando settori come la medicina, l’industria e la vita quotidiana. Sistemi avanzati sono in grado di generare testi, rispondere a domande e persino creare opere d’arte. Tuttavia, una domanda continua a dividere gli esperti: l’IA ha una coscienza? Può pensare e sentire come un essere umano?

La risposta prevalente è no. L’IA non possiede una coscienza nel senso umano del termine. La coscienza implica la consapevolezza di sé e del mondo esterno, accompagnata da esperienze soggettive come emozioni e sensazioni. Gli esseri umani possono riflettere sulle proprie azioni, provare empatia e prendere decisioni basate su valori morali. L’IA, invece, funziona grazie a complessi algoritmi e grandi quantità di dati, simulando comportamenti intelligenti senza comprenderli.

Un esempio chiaro è la capacità di alcune macchine di generare risposte convincenti, tanto da sembrare umane. Questo, però, non significa che siano consapevoli. Sono progettate per imitare il linguaggio e i modelli umani, ma dietro ogni risposta ci sono solo calcoli matematici, non una mente pensante.

Gli studiosi distinguono tra IA “debole” e IA “forte”. L’IA debole, quella attuale, eccelle in compiti specifici, come tradurre testi o guidare automobili, ma non capisce il significato delle sue azioni. L’IA forte, con autocoscienza e capacità di apprendimento autonomo, rimane un’ipotesi futuristica. Alcuni pensano che, con il progresso tecnologico, le macchine potrebbero un giorno sviluppare una coscienza, ma per ora è solo speculazione.

Un altro aspetto importante è l’etica. Se l’IA dovesse mai diventare cosciente, come dovremmo trattarla? Avrebbe diritti? Queste domande sollevano dilemmi morali che la società dovrà affrontare. Per ora, gli esperti sottolineano l’importanza di sviluppare l’IA in modo responsabile, assicurando che resti uno strumento al servizio dell’umanità.

In conclusione, l’IA non ha una coscienza. La sua “intelligenza” è il frutto di dati e programmazione, non di consapevolezza. Tuttavia, il dibattito continua a evolversi, spingendoci a riflettere sul confine tra uomo e macchina.



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Milionari senza Laurea?

In tempi di video motivazionali e storie virali, il messaggio è chiaro: “Non serve la laurea per diventare ricchi; guarda questi esempi”. È una narrazione seducente, ma rischia di farci cadere nel bias del sopravvissuto: vedere solo chi è arrivato al traguardo e ignorare la moltitudine che si è fermata prima. Quando applichiamo questo filtro alla ricchezza — in particolare al mito dei “milionari senza laurea” — travisiamo i dati, prendiamo decisioni sbagliate e diamo consigli pericolosamente parziali a studenti, famiglie e imprenditori.Che cos’è il bias del sopravvissuto (e perché ci inganna)Il bias del sopravvissuto è un errore logico-statistico: concentriamo l’attenzione su chi è “sopravvissuto” a un percorso (aziende di successo, personaggi celebri, investitori vincenti), trascurando chi ha fallito o si è fermato. Il risultato è un’immagine distorta della realtà, dove le probabilità reali di successo sembrano più alte di quanto siano. È il motivo per cui i racconti di poche star diventano regola implicita, mentre il silenzio dei molti che non ce l’hanno fatta non entra mai nel quadro.Ricchezza e istruzione: cosa dicono i dati, non gli aneddoti - Il mito dei dropout miliardari nasce da una manciata di storie eccezionali. Ma le analisi su campioni ampi mostrano altro:La larga maggioranza dei miliardari e dei milionari ha un titolo universitario. Studi su elenchi dei più ricchi e indagini su migliaia di milionari indicano quote ampie di laureati, con una fetta non trascurabile persino con titoli post-laurea. In altre parole: i casi famosi senza laurea sono eccezioni, non la regola.Nel complesso del mercato del lavoro, l’istruzione paga: a livelli di studio più alti corrispondono, in media, salari maggiori e tassi di disoccupazione più bassi. Questo non garantisce né ricchezza né successo, ma sposta le probabilità nella direzione giusta. Tradotto: non serve una laurea per ogni carriera possibile, ma i numeri smentiscono l’idea che “laurearsi non conti”.Tre spinte lo alimentano:-  Selezione delle storie: i media e i social amplificano i percorsi fuori norma; la normalità (anni di studio e lavoro) è poco “condivisibile”.-  Conferma delle convinzioni: se vogliamo credere che “basta la grinta”, cerchiamo e ricordiamo solo esempi che lo confermano.-  Invisibilità dei falliti: chi non arriva non racconta; chi arriva racconta molto. La platea vede solo i vincenti.-  Il risultato è una bussola che punta sempre verso “modelli” scintillanti, anche quando sono irripetibili.Impresa e fallimenti: il lato nascosto della curvaUn’altra zona d’ombra del bias del sopravvissuto riguarda l’imprenditoria. Le statistiche internazionali mostrano che molte nuove imprese non superano i primi anni, e la maggioranza delle startup non arriva alla scala promessa dai pitch. Questo non significa che “non convenga provarci”, ma che i modelli costruiti solo su unicorni e storie heroiche sovrastimano la probabilità di riuscita e sottovalutano capitale, competenze e tempi necessari.Decisioni concrete: come evitare gli errori più comuni-  Separare eccezioni e tendenze: ispirarsi alle storie fuori norma è lecito; pianificare su quella base è rischioso.-  Guardare alle distribuzioni, non ai casi singoli: stipendi mediani, tassi di occupazione, probabilità di sopravvivenza delle imprese sono bussola migliore dei racconti virali.-  Valutare i percorsi alternativi con dati alla mano: formazione tecnica, apprendistati e certificazioni possono offrire ritorni solidi; la scelta dovrebbe dipendere da settore, domanda e competenze richieste, non da slogan.-  Misurare i costi opportunità: rinunciare a un titolo può far entrare prima nel mercato, ma può ridurre margini di mobilità e resilienza nelle crisi.-  Dare visibilità ai “non sopravvissuti”: quando si analizza un settore (o si fa orientamento), includere sistematicamente i progetti falliti e i motivi del fallimento.Giovani e famiglie: cosa chiedersi prima di “saltare” l’università-  Qual è il profilo occupazionale del settore? Titoli richiesti, retribuzioni tipiche, carenze di competenze.-  Qual è la via più efficiente al primo impiego qualificato? Laurea breve? ITS/IFTS? Apprendistato? Certificazioni?-  Che rete ho? Molti esempi “senza laurea” erano sostenuti da reti, capitale iniziale o contesti unici, difficili da replicare.-  Come mitigo il rischio? Stage, lavori part-time qualificati, corsi mirati e portafogli di progetti possono ridurre l’incertezza sia scegliendo l’università sia optando per percorsi alternativi.Il punto di equilibrioLa laurea non è un feticcio; è uno strumento che, in media, aumenta opportunità e resilienza. Esistono percorsi vincenti senza università, ma sono meno probabili di quanto suggerisca l’eco mediatica. Il compito di scuole, famiglie, imprese e media è ristabilire la proporzione: smitizzare i pochi “sopravvissuti”, restituire visibilità alla base larga della distribuzione e aiutare ciascuno a scegliere sulla base di dati, non di slogan.  

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